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Enea Melandri

mercoledì 1 dicembre 2010

La Riforma dell'Università al Microscopio

Cosa prevede la legge di riforma degli atenei approvata dal Parlamento?
Scoviamo i bachi del testo, e analizziamo le conseguenze. (ne parlo anche qui)

Diciamo subito quella che si sta approvando è una legge delega, che deve essere attuata da successivi decreti legislativi. Con tutta probabilità, passeranno diversi mesi prima che tali decreti vengano approvati (sempre che naturalmente il Governo non cada, eventualità che potrebbe far slittare di qualche anno l’effettiva entrata in vigore della riforma stessa).
L’effetto immediato della riforma sarà quello di bloccare tutte le procedure di reclutamento di ricercatori e docenti universitari.

Inoltre, all'articolo 2, comma 1, lettera i, si prevede l’inserimento nei consigli d’amministrazione degli atenei di non meglio definite “personalità italiane o straniere in possesso di comprovata competenza in campo gestionale ovvero di un’esperienza professionale di alto livello con una necessaria attenzione alla qualificazione scientifica culturale”; si apre cioè la strada all’ingresso di personalità provenienti dal mondo della politica e da quello dell’imprenditoria.
Un colpo mortale all’autonomia universitaria e alla libertà di ricerca; i “baroni” interlocutori del Governo si mostrano disposti ad accettare in cambio di un significativo incremento del loro potere nelle procedure di selezione e di reclutamento del personale.

Il disegno di legge di riforma crea inoltre le condizioni per un bel taglio alle borse di studio per dottorati. Perchè? La precendente legge 218/1990 (Norme per il reclutamento dei ricercatori e dei professori universitari di ruolo) prevede, infatti, all’art. 4, comma 5, lettera c, che con appositi decreti dei Rettori delle università si stabilisca ogni anno “il numero, comunque non inferiore alla metà dei dottorandi, e l’ammontare delle borse di studio da assegnare, previa valutazione comparativa del merito”.
Ora, l’art. 17 bis del disegno di riforma abroga le parole “comunque non inferiore alla metà dei dottorandi”, e qui viene meno una norma di garanzia che imponeva il finanziamento di almeno la metà dei posti messi a concorso per dottorati di ricerca (tradotto: la ricerca in Italia si fa gratis…).
Ma sempre lo stesso articolo fa di più: riformando la legge 476/1984, articolo 2, comma 1, aggiunge un fumoso “compatibilmente con le esigenze dell’amministrazione” (che tutti possiamo facilmente tradurre), riguardo alla regolamentazione di congedi e dottorati di ricerca per il perfezionamento.
Conseguito un dottorato di ricerca, i pubblici dipendenti non possono più aspirare a partecipare ad altri dottorati (anche senza gravare sull’amministrazione); risparmiare è l'imperativo, anche a discapito della preparazione e della specializzazione di amministratori pubblici e di docenti.

Come accennato prima, il senso complessivo di questa parte è che la ricerca in Italia si deve fare a costo zero e senza svolgere altri impieghi. Meglio dedicarsi ad altro.

Il ricercatore a tempo determinato: i nuovi ricercatori saranno selezionati mediante procedure pubbliche disciplinate dalle università con apposito regolamento e nel rispetto di alcuni criteri enunciati dallo stesso disegno di legge di riforma (art. 21, comma 2).
Potranno aspirare al contratto i possessori del titolo di dottore di ricerca o di titolo equivalente, oppure, per i settori interessati, del diploma di specializzazione medica. Altri requisiti saranno stabiliti dai singoli atenei.
L’articolo 21 del disegno di riforma disciplina i contratti dei ricercatori a tempo determinato, che possono essere di due tipi: contratti di durata triennale prorogabili per soli due anni, per una sola volta, previa positiva valutazione delle attività didattiche e di ricerca svolte, effettuata sulla base di modalità, criteri e parametri definiti con decreto del Ministro, e contratti triennali non rinnovabili, riservati a candidati che hanno usufruito dei contratti del primo tipo (o di analoghi contratti in atenei stranieri).
Alla fine dei sei (o otto nel migliore dei casi), o si diventa associati o si va a casa. La nuova disciplina, pertanto, incrementa il precariato e non toglie alcun potere (anzi lo incrementa) ai cosiddetti 'baroni', dato che la selezione e la stabilizzazione dei neoricercatori spetterà sempre e comunque a questi ultimi.

Per diventare professore non sarà più necessario effettuare un concorso. L’art. 16 istituisce, infatti, l’abilitazione scientifica nazionale che avrà durata quadriennale e attesterà la qualificazione scientifica che costituirà requisito necessario per l’accesso alla prima e alla seconda fascia dei professori.
Scommettiamo? L’abilitazione nazionale verrà riconosciuta sulla base di standard non eccelsi, e, di conseguenza, il potere di reclutamento resterà tutto nelle mani degli ordinari 'baroni'.

L'epocale riforma annunciata dal ministro, basata su meritocrazia e contro il potere del baronato, si basa su tre punti:
1) ridurre drasticamente posti e finanziamenti alle università;
2) far entrare l’imprenditoria privata e la politica negli atenei pubblici;
3) accentuare sensibilmente il peso degli ordinari nella definizione delle politiche accademiche allo scopo di far “digerire” loro la condivisione del potere con imprenditori e politici.

A voi il giudizio.

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